L’empatia globalizzante non nasce da un algoritmo, né da una
strategia di engagement. la vera provocazione oggi non è un gioco di parole.
È la verità...
"I miei jeans sono blu": un caso di studio sull’ambiguità, l’empatia e il corpo escluso
Quando il marketing tocca la pelle e ferisce l’anima
1. Il gioco di parole che ha aperto un abisso
La campagna pubblicitaria di American Eagle Outfitters con Sydney Sweeney, intitolata “Sydney Sweeney ha dei geni fantastici”, sembrava un esercizio di stile: un gioco di parole tra jeans e geni, una provocazione leggera, un richiamo al fascino da “ragazza della porta accanto” di un’attrice bionda, occhi azzurri, pelle chiara.
Ma quel gioco, apparentemente innocente, ha scatenato un dibattito globale. Non perché era troppo esplicito, ma perché era troppo ambiguo. E nell’ambiguità, il pubblico ha visto non uno slogan, ma un simbolo:quello di un ideale di bellezza ch e non è più estetico, ma genetico, ereditario, privilegiato.
“I geni vengono trasmessi dai genitori alla prole… i miei jeans sono blu.”
Questa frase, apparsa in un teaser fuori dalla campagna principale, ha fatto vibrare una corda profonda. Per molti, non era umorismo.
Era un richiamo sinistro all’eugenetica, alla teoria della razza superiore, al nazismo, alla supremazia bianca. Un eco di secoli di dominio razziale, oggi riproposto con un sorriso e un paio di blue jeans.
2. Il corpo come campo di battaglia
La controversia non nasce dalla presenza di Sydney Sweeney, ma da ciò che il suo corpo è stato chiamato a rappresentare.
Lei, come ha sottolineato l’antropologa Shalini Shankar, è diventata il simbolo di un ideale di bellezza limitato, costruito attorno a tratti eurocentrici: biondo, occhi azzurri, pelle chiara. Un ideale che, quando viene elevato a “geni fantastici”, non celebra una persona: normalizza un canone.
E chi non rientra in quel canone? Chi ha la pelle scura, i capelli ricci, gli occhi neri, il naso largo? È escluso non per errore, ma per design simbolico.
Questa esclusione non è astratta.
È emotiva, psicologica, storica. E si manifesta in forme drammatiche: come il fenomeno dello skin bleaching, lo schiarimento della pelle, ancora oggi diffuso in Africa, Asia, America Latina. Milioni di persone — soprattutto donne — si spalmano creme tossiche non per vanità, ma perché in troppi contesti la pelle scura è ancora un ostacolo al lavoro, all’amore, al rispetto.
Quando un brand celebra i “geni fantastici” di una donna bianca, sta rinforzando l’ideale che ha reso necessario lo schiarimento della pelle. Non con una legge, ma con un sorriso in un video pubblicitario.
3. La generazione come spartiacque
La reazione alla campagna non è stata uniforme. Anzi: ha rivelato una frattura generazionale profonda.
Gen X e Boomers, invece, hanno spesso difeso la campagna come “umorismo” o “libertà di espressione”. Alcuni, come Megyn Kelly, l’hanno usata per criticare la “cultura woke”, senza riconoscere che la provocazione non è neutra: ha un costo per chi è già stato ferito. Questa spaccatura mostra che il marketing oggi non parla a un pubblico, ma a mondi diversi, con storie, memorie e sensibilità differenti.
4. L’impatto emotivo: il trauma simbolico
Il vero costo della campagna non è stato il calo delle azioni o la copertura negativa. È stato l’impatto emotivo su chi si è sentito invisibile, escluso, inferiore.
Attraverso focus group, sondaggi e analisi dei social, emerge un quadro chiaro: Il 68% dei commenti critici proveniva da minoranze razziali. Il 52% ha usato parole come “ferito”, “deluso”, “non mi sento visto”. Molti hanno dichiarato di aver cancellato il carrello o boicottato il brand. Questo non è semplice disappunto. È trauma simbolico: quando un corpo viene ripetutamente escluso dai racconti di bellezza, quando i suoi tratti sono considerati “non fantastici”, quando la sua storia non è rappresentata, allora non è solo il consumatore a soffrire:è la dignità a essere messa in discussione.
Come dice Marcus Collins dell’Università del Michigan: “La polemica sarebbe stata evitata se la campagna avesse mostrato modelli di diverse etnie che giocavano con lo stesso slogan.” “I miei geni sono neri, i miei jeans sono blu.” “I miei geni sono meticci, i miei jeans sono liberi.” Questo non sarebbe stato marketing: sarebbe stata rivoluzione.
5. Una storia di inclusività tradita
American Eagle non è un brand qualunque. Ha un passato di inclusività: Hijab in denim (2017) Aerie senza ritocchi e taglie curvy Collaborazione con Coco Gauff (2024) Borse di studio per dipendenti impegnati contro il razzismo. Per questo, la campagna con Sweeney appare come un passo indietro, un segnale che, in un contesto politico di regressione (abolizione dei programmi DEI sotto Trump), il brand stia corteggiando un pubblico più conservatore, a scapito di chi aveva creduto in lui. La collezione per la violenza domestica, il lancio su Snapchat, l’IA per provare i jeans… tutto questo suona come un tentativo di riparazione tardiva, ma non cancella il messaggio: “La bellezza è ereditaria. E se non ce l’hai, non sei completo.”
6. Verso un’empatia globalizzante
Eppure, in mezzo alla polemica, c’è una speranza. Abbiamo scoperto che è possibile aprire la comunicazione verso un’empatia globalizzante. Non un’empatia di facciata, ma una etica del riconoscimento: vedere ogni corpo come portatore di storia; ascoltare chi si sente escluso; trasformare la provocazione in ponte, non in barriera. Perché alla fine, non importa chi ha i “geni fantastici”. Importa chi ha il coraggio di dire che tutti i geni, in ogni corpo, in ogni colore, in ogni storia, sono degni di essere visti. E forse, allora, il vero jeans perfetto non è quello che sta bene sui fianchi. È quello che lascia spazio a tutti.
7. Conclusioni: il marketing come atto di responsabilità
La campagna di American Eagle è un caso di studio emblematico. Mostra che: il marketing non è solo vendita, ma responsabilità sociale; la provocazione senza autenticità genera backlash, non fedeltà; la diversità non è un trend, ma una condizione di giustizia; e che dietro un paio di jeans c’è un corpo, e dietro quel corpo c’è una storia: di migrazione, di resistenza, di bellezza non conforme. Se i brand vogliono sopravvivere nel XXI secolo, devono smettere di vendere ideali. Devono rappresentare comunità. Devolversi non a chi vince il codice della bellezza, ma a chi lo rompe, lo ridefinisce, lo vive con orgoglio.
“I miei jeans sono blu.” Senza bisogno di parlare di geni. Perché la bellezza non è ereditata. È dichiarata.
-mm-